L’apicoltura in casa Garibaldi diventa professionismo nel gennaio del 1984 con l’iscrizione alla Camera di C.I.A.A. di Udine, anche se io sono apicoltore dal 1977.
L’anno prima, a ragione del disastroso terremoto che sconvolse il Friuli e la Carnia (maggio 1976), trascorsi l’estate nella sicura casa paterna di Cabella Ligure, in Val Borbera sull’Appenino ligure, ma in provincia di Alessandria, dove viveva la nonna Ida, moglie di Manlio Garibaldi, medico e anch’egli apicoltore.
La casa è sulla sommità della collina che sovrasta l’ingresso del paese, costruita verosimilmente alla fine del 1600 e, per racconto dei nonni, acquistata nel 1828 da Dionisio Garibaldi, figlio di Giuseppe Maria, dal principe Doria.
L’edificio era stato sede del governo del feudo e poi commissariato, a tutela della villa dei Doria (il Palazzo) costruita nella stessa epoca su eguale sommità posta di là del torrente Liassa, sempre sulla sponda destra del Borbera.
La casa, grande e con ampia visuale sulla valle, è ben esposta a meridione e sotto una bella terrazza che sta davanti al soggiorno c’è un luogo riparato dalla pioggia e dal vento dove andavo ad incontrare il mio destino.
Infatti là mio padre Renato accudiva alcuni alveari e fui incuriosito ed attratto dal meraviglioso piccolo mondo di questi insetti che da molte generazioni venivano allevate dalla nostra famiglia.
Tra le tante faccende che sbrigavo nella casa paterna, ubbidiente al senso del dovere che era ordine imperativo di grandi e piccini, un caldo giorno di luglio mio padre mi chiese di verniciare un paio di vecchie arnie con un smalto giallo vivo.
Lo feci senza difficoltà, fintantoche si trattava dei fianchi e del retro e superai con un po’ di timore il volo delle bottinatrici per dipingere rapidamente la parte anteriore, dove uscivano le api.
Quando ebbi finito mi tolsi e vidi che molte api atterravano sul predellino di volo con le zampe appesantite da misteriose palline multicolori.
Chiesi spiegazioni a mio padre e dalla sua risposta appassionata scatto la molla dell’interesse.
Per il gene di famiglia era venuto il tempo di farsi sentire.
Infatti già uno dei capostipiti del nostro ramo familiare, tal Giuseppe Garibaldi – medico – che verso gli inizi del 1700 si trasferì a Cabella da Genova alla corte dei DORIA – signori di quella città – che in quel paese dell’Appenino ligure avevano una lussuosa residenza estiva, possedeva qualche alveare; così racconta del nonno il nipote Giuseppe Maria Garibaldi, figlio di Angelo, a sua volta cugino del nonno dell’Eroe dei due mondi (suo omonimo).
Questo, nonostante la laurea in medicina, inizia uno studio sistematico dell’insetto che lo porterà verso il 1790 a scrivere il trattato di apicoltura di cui ho il manoscritto, intitolato “I prodigi della natura manifestati nelle api”.
Purtroppo non vedrà mai la tipografia perché, come scrive l’autore a Carlo Bonnet nel 1792, “Io l’ho fatto per mio divertimento giacchè non sono intenzionato a farla stampare.
Sono stato castigato di altra opera di chirurgia stampata in Pavia (“L’uso dello spirito di vino in medicina” n.d.a.) – pertanto se non trovo qualche libraio, che voglia comprare l’originale, questa non vedrà la luce”.
Giuseppe M. Garibaldi, anch’egli medico e farmacista, ha una fitta corrispondenza e relazioni con biologi ed entomologi del tempo, tra i quali l’Abate Spallanzani, Carlo Bonnet, la Società di Lussazia.
L’amicizia che lo lega a Napoleone fa si che il suo unico figlio maschio verrà chiamato Dionisio in onore del santo protettore di Francia. Più tardi Napoleone III gli riconoscerà la croce di S. Elena in segno di amicizia e fedeltà.
Il figlio di questi, Cesare, combatterà a fianco dei francesi con Carlo Alberto nella Prima Guerra d’Indipendenza e scriverà un libro sulle ferite d’arma da fuoco. Tra una guerra e l’altra torna nella residenza di famiglia a Cabella e si dedica al suo hobby preferito: l’apicoltura.
E’ contemporaneo dell’omonimo del nonno, ma ben più famoso: il nizzano Giuseppe (Maria) Garibaldi.
Anche di questo sappiamo per certo che allevava le api presso la casa che il Governo Crispi gli aveva concesso a Caprera e la passione che lo legava al mondo delle api è dimostrato dalla testimonianza della figlia Clelia che così racconta:
M’era tanto caro aiutare Papà in qualche lavoretto. Ero io, per esempio, che, nella stagione invernale, portavo il miele alle api. D’inverno, senza fiori, nelle arnie si fa la fame. Il miele cadente si teneva appunto per quest’uso.
A Fontanaccia (si chiamava e si chiama tutt’ora così la località dove si trovava l’apiario), vicino all’aranceto, c’è una minuscola costruzione che molti si chiedono che cosa possa essere.
Era la casa delle api. Io entravo con due piattini, uno per mano, ripieni del dolce nettare e li posavo vicino alle arnie, non senza un vago senso di paura per le tante api che mi svolazzavano intorno.
Papà notava la mia esitazione e dolcemente m’incoraggiava: “Bambina, non aver paura. Entra pure.
Loro sanno benissimo che tu porti da mangiare; non ti faranno nulla”.
Allora entravo, sicura come se fosse stata la voce di mio padre a scongiurare ogni pericolo. Le api mi si posavano sulle mani e sul viso, ma io me ne restavo tranquilla.
Papà, fuori, mi aspettava.
Posavo i piattini e uscivo, felice di aver terminato il mio coraggioso compito.
Soltanto una volta un’ape entrò nei miei capelli e sentendosi prigioniera mi punse.
Papa mi levò subito il pungiglione e premendo sulla parte lesa la lama del suo temperino mi disse: “Ora non sentirai più nessun dolore. Tutto è passato, vero?”.
Ed era vero.
Il miele ci serviva anche per mettere nel caffè, onde risparmiare lo zucchero che si doveva comprare.
A mamma non piaceva.
Ma l’importante era di fare tutto ciò che voleva Papà.
Le finanze furono sempre molto magre in casa mia.
Altra testimonianza viene dalla società italiana di apicoltura che pubblica nella sua rivista:
La Presidenza dell’Associazione avendo saputo che il Generale Garibaldi s’occupa di apicoltura , gli ha inviato una copia del suo
Giornale l’Apicoltore.
Ora la medesima ha ricevuto dall’illustre Generale la seguente lettera che ci facciamo un pregio di
pubblicare:
Caro Sig. Presidente.
è un ben prezioso regalo il vostro giornale l’Apicoltore.
L’apicoltura è oggi per me l’occupazione prediletta. Ve ne sono ben grato.
Caprera, 17 Agosto 1874.
Vostro G. Garibaldi
Altre preziose testimonianze vengono dalle lettere intercorse tra l’Eroe e la società di apicoltura di Livorno.
Da lì in avanti è storia recente, arricchita dalle testimonianze verbali della nonna Ida e di mio padre.
Ma altri particolari emergono tra i membri della famiglia.
Da una ricerca su Alfredo Garibaldi, classe 1864, figlio di Cesare, emergono altri particolari interessanti.
Il suo nome è legato agli eroi di Amba Alagi.
La nonna raccontava che si salvò protetto dalle schegge delle granate dai corpi dei suoi commilitoni morti.
Con trecento valorosi raggiunse Macallè e non chiese di ritornare in Patria in convalescenza, ma di riformare con i commilitoni il battaglione del suo eroico comandante Toselli e si preparò alla sfortunata battaglia di Adua dove, i primi giorni di marzo del 1896, venne ferito per la seconda volta, e così gravemente da pregiudicare la sua stessa vita.
Fu fatto prigioniero assieme agli altri pochi sopravvissuti della brigata indigeni e per oltre un anno e mezzo lottà tra la vita e la morte nel campo di concentramento etiope.
Alla fine delle ostilità venne finalmente liberato e nella Pasqua del 1898 potè rientrare a Cabella Ligure dove la sua fama lo aveva preceduto.
Fu promosso sul campo e decorato con la medaglia d’argento. Il IX lancieri di Firenze, corpo nel quale era transitato, lo iscrive tra i suoi eroi.
Al rientro in Patria il Re in persona lo volle decorare con il titolo di Cavaliere della Corona d’Italia e gli regalò uno dei più bei cavalli delle sue scuderie.
Ma le ferite e la lunga prigionia avevano posto una seria ipoteca sul suo futuro e nonostante trascorresse le sue giornate nella pace della villa della moglie a Campedello (Vicenza) la morte sopraggiunse a soli 46 anni. I nipoti della moglie, uno di essi ancora abita nella grande casa divisa in più appartamenti, confermano che era nota la sua passione per le api a cui dedicava tutto il tempo che l’incerta salute gli lasciava.
Anche se tutti i maschi della famiglia, fin dagli inizi dell’attività accademica dell’antica università di Genova, sono laureati in medicina e/o farmacia, oppure sono militari di carriera, c’è sempre stato un forte legame scientifico ed affettivo con le api. E di generazione in generazione fino a mio padre ed ora a me.
Mio padre, già senatore della Repubblica, si farà promotore e difensore della legge che impediva il tentativo della grande industria confezionatrice di confondere la produzione nazionale con quella di importazione.
Questi trecento anni di apicoltura di padre in figlio per oltre dieci generazioni, è un caso documentato senza precedenti al mondo e se diamo retta a quel famoso giurista inglese che diceva che una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze sono due coincidenze, ma tre coincidenze sono un indizio, non si può far altro che accettare come dimostrato questo vincolo genetico che da tre secoli almeno lega la storia di tutta la mia famiglia.
Ne più ne meno come alcune caratteristiche del volto (mio padre è il ritratto del condottiero) e del carattere è spirito battagliero, ma generoso -, sensibili al fascino femminile, prolifici perchè innamorati dei figli – l’amore e la passione per il mondo del dolce imenottero accompagnano tutti noi Garibaldi in una strada che pare non avere fine.
Le mille camice rosse del generale sono sostituite dai 1000 alveari dipinti di nero per aiutare le fredde stagioni invernali della montagna carnica ….
Certo tra gli apiari dei tre Giuseppe Garibaldi (un’ottantina di alveari al massimo) e i 500 quintali prodotti dalle api del sottoscritto c’è una bella differenza di metodo e di obblighi, ma riempie di orgoglio sapere che nel 1880, al suo terzo matrimonio, l’eroe dell’Unità d’Italia dichiara al Sindaco di Caprera: professione agricoltore, come il sottoscritto annota oggi nella sua carta di identità